Zeus era il figlio di Crono e di Rea. Corse alla nascita il grande pericolo di essere divorato dal padre, che soleva disfarsi dei figli che Rea gli generava. Ma era scritto in un oracolo che uno di questi sarebbe dovuto diventare signore del mondo. Rea, pensando che l’ultimo di essi fosse il predestinato, portò Zeus di nascosto a Creta, sulla vetta del monte Ida. Come spiegare al vorace Crono la scomparsa del bambino? Rea avvolse in un pannolino un bel ciottolo delle dimensioni di un neonato, e lo portò al marito che lo ingoiò in un boccone, pensando di mangiare la carne tenera del figlio. Intanto Zeus venne raccolto da Gea (la Terra) e messo al sicuro in una profonda caverna. La sua infanzia fioriva precoce e vigorosa. Le Ninfe lo facevano giocare, saltare e correre. La Capra Amaltea lo nutriva con il suo latte. Le api deponevano per lui sulla soglia della grotta, il miele dorato. Quando il bambino strillava, i Cureti, sacerdoti di Rea, che vegliavano sulla sua educazione, facevano rumore cozzando gli scudi, danzando e urlando. Raggiunta l’età adulta, Zeus volle impadronirsi del potere detenuto dal padre Crono. Chiese consiglio a Meti (la Prudenza) che gli diede una droga, grazie alla quale Crono dovette vomitare i figli che aveva inghiottito. Con l’appoggio dei fratelli e delle sorelle riportati in vita, Zeus attaccò Crono e i Titani. La lotta durò dieci anni. Alla fine, Zeus e gli Olimpici furono vincitori ed i Titani cacciati dal Cielo. Per ottenere questa vittoria, Zeus consigliato da Gea, aveva liberato dal Tartaro i Ciclopi e gli Ecatonchiri che Crono vi aveva imprigionati. Uccise perciò la loro carceriera Campe. I Ciclopi diedero a Zeus il tuono e il fulmine ch’essi avevano forgiato; ad Ade diedero un elmo magico che rendeva invisibile chiunque lo portava; a Poseidone diedero un tridente, il cui urto scuoteva la terra e il mare. Una volta che ebbero vinto, gli dei si divisero il potere, tirando a sorte. Zeus ottenne il cielo; Poseidone, il mare; Ade, il mondo sotterraneo. In più Zeus ebbe il predominio sull’Universo.
Gli attributi di Zeus erano l’aquila, lo scettro e la folgore. Veniva raffigurato assiso sul un trono, col viso maestoso e sereno, con una chioma folta e riccia come la criniera di un leone, il viso era coperto da una barba piena; alta e spaziosa la fronte, labbra sottili, occhi infossati, grandi, espressivi e buoni.
Era veniva considerata la più grande di tutte le dee dell’Olimpo, figlia di Crono e di Rea, e quindi sorella di Zeus. Come tutti i suoi fratelli e sorelle, Era fu inghiottita da Crono ma restituita alla vita dallo stratagemma di Meti e dalla forza di Zeus. La dea venne allevata all’estremità del mondo da Oceano e Teti, ai quali Rea l’aveva affidata durante la lotta fra Zeus e i Titani. Il modo in cui Zeus le si offrì per fidanzato è veramente straordinario. Mentre la bella fanciulla, per ingannare le lente ore d’un giorno d’inverno, filava una conocchia di bianca lana, un cuculo entrato d’improvviso nella sua camera le si posò sulla spalla. Era, vedendolo infreddolito e umido di fiocchi di neve, lo scaldò in un lembo del suo velo. Ma il cuculo si trasformò ad un tratto in un dio splendente. Era Zeus che gli offriva il suo amore e il suo trono. Era accettò. Le nozze furono celebrate in primavera alla presenza di tutti gli dei del Cielo e della terra. Una sola ninfa, Chelone, giunse in ritardo al convegno, a causa dei sandali che le facevano male ai piedi. Era s’indignò di quel ritardo e trasformò la ninfa in una tartaruga. Salita al trono di Zeus, la dea divenne possente quasi come il suo sposo. Le continue baruffe e riappacificazioni dei due coniugi divini significavano l’eterna agitazione dei cieli, le alternative di serenità radiosa e di burrasca. Zeus era infedele, autoritario e violento; Era, per indole gelosa, brontolona, ostinata e soprattutto vendicativa, tante volte scese infuriata dall’Olimpo per punire le Ninfe che Zeus aveva corteggiato sotto le sembianze di cigno, di pioggia d’oro o di torello o i figli che erano nati da esse. Era, esempio di castità e di fedeltà verso il suo sposo, rappresentava il simbolo del matrimonio. Un giorno Era, infuriata a causa d’un nuovo tradimento di Zeus, giurò di abbandonarlo. Scese dall’Olimpo e si rifugiò nell’isola di Eubea. Zeus cominciò a sentire la mancanza della moglie. Ma come fare per farsi perdonare? Decise di escogitare un tranello ad Era. Fece diffondere la voce di aver deciso di sposare una bella ninfa, Platea, la figlia di un fiume, la quale stava attraversando l’isola Eubea a bordo di uno splendido carro. Il dio del cielo fece preparare un fantoccio di legno rivestito di tessuto e gioielli, facendo credere che si trattasse della fanciulla. Era, furiosa, si avventò sulla statua e dopo averle strappato la veste, si accorse dell’inganno. In seguito perdonò il marito e ritornò con lui sull’Olimpo. Era veniva spesso rappresentata assisa su un trono o dritta con in una mano uno scettro sormontato da un cuculo e nell’altra una melagrana, frutto simbolo del matrimonio e dell’amore. Il pavone era il suo animale sacro.
Poseidone era figlio di Crono e di Rea, a cui Zeus, suo fratello, diede per dominio il mare. Per poco suo padre, mosso dalla consueta fame rabbiosa, non lo divorò come gli altri fratelli. Ma la madre diede da mangiare al suo posto al crudele Crono un puledro, e quello, senza troppo pensarci su, inghiottì il cavallino e risparmiò il futuro dio delle onde. Inizialmente Poseidone fu fedele a Zeus e lo aiutò nella guerra contro i Titani. Ma poi per gelosia dell’impero sterminato che il re degli dei si era impossessato, complottò contro di lui insieme ad Apollo; i due cercarono di far precipitare Zeus giù dal trono. La congiura andò male e Poseidone venne cacciato dal cielo.
La reggia di Poseidone era in fondo al mare. La luce filtrata dalle acque faceva scintillare le madreperle e i coralli. In quel silenzio fatato, Poseidone regnava con la sua sposa Anfitrite, figlia di Oceano. Egli dominava il mare scatenava e placava le burrasche, faceva spesso tremare la terra con la forza della sua collera. Capriccioso e violento, vendicativo e benefico, faceva sorgere all’improvviso in pieno mare un’isola o un arcipelago, e da una terra arida e sassosa faceva spiccare una fonte, per la gioia degli assetati viandanti. La Grecia vedeva in questa divinità terribile quasi un secondo Zeus, ed ogni quattro anni celebrava in suo onore splendidi giochi sull’istmo di Corinto: i Giochi istmici. Poseidone veniva comunemente rappresentato con l’aspetto di un uomo vigoroso, nudo o cinto con un drappo svolazzante, sopra un carro a forma di conchiglia tirato da cavalli marini. Nei foltissimi capelli a ciocche era evidente un’allusione alle arricciate onde del mare. Il suo attributo principale era il tridente. Poseidone generò Tritone, metà uomo e metà pesce, che gli serviva da messaggero e comandava uno stuolo di mostri turbolenti, tutti armati di conchiglie sonore con le quali intonavano una musica discorde intorno al carro di Poseidone: Glauco, destinato a tramutarsi in pesce; Polifemo, gigante da un occhio solo in fronte, accecato da Ulisse e Anteo, gigante libico, poi ucciso in una dura lotta da Eracle.
Ade era il dio dell’oltretomba, figlio di Crono e Rea. Zeus gli aveva dato lo scettro del regno degli Inferi; il popolo di questo oscuro mondo era composto da ombre. L’umanità intera tremava nel sentire il nome di Ade. Lo si definiva anche con il termine di Invisibile, a causa del suo buio soggiorno e d’un elmo che lo cingeva di una cupa nebbia. Non usciva mai alla luce del sole, meno una volta, quando lo spinse a mostrarsi sulla terra l’infatuazione per Persefone. Il suo trono era nel centro del suo regno. Ade sedeva come giudice delle anime, e pronunciava giudizi senza appello. Una volta sola si commosse, quando Orfeo lo implorò di rendergli Euridice, sua sposa. Ma per uno strano contrasto, mentre lo si temeva e se ne parlava quasi come di un orco. Gli si tributava un culto pieno di gratitudine. Ade era talvolta rappresentato, in antiche sculture, seduto accanto a Persefone, sua sposa, mentre tiene in mano il corno dell’abbondanza. Più frequentemente lo si raffigura sopra un trono d’ebano, con una barba folta e ispida, cinta la fronte d’una corona di foglie nere, e con in mano una chiave e lo scettro del regno infernale. Da questo dio funebre dipendevano Tanatos, personificazione della morte, che si raffigurava come un uomo alato e barbuto; le Keres, geni-vampiri che, sotto le sembianze di vergini alate, tendevano agguati agli uomini in guerra e in pace, e succhiavano loro il sangue; le Furie e le Parche.
Demetra era nata dall’unione di Crono con Rea. Dea della terra, si narrava in alcuni luoghi che Demetra fosse stata rapita e sposata a Poseidone, dio dell’elemento acqueo, indispensabile alla vegetazione. La dea benefica percorse le incolte terre ed insegnò agli uomini a coltivare le messi non contenta di rivelarsi agli umili abitanti dei campi per spiegare loro i riti dell’arte agraria, Demetra educò l’eroe Trittolemo, e confidatigli i segreti dell’aratura e della semina, lo spedì per il mondo, sopra un carro alato, tirato da dragoni, affinché diffondesse l’amore per le fatiche piene di ricompense della coltivazione. Questo dio-eroe fondò Eleusi, ed istituì le feste a Demetra, che si chiamavano Eleusine e che celavano solenni ed inviolabili misteri. Demetra aveva una figlia, Persefone. Ade, re dei morti, emerso all’improvviso col suo carro, mentre la bellissima fanciulla raccoglieva fiori vicino alla fonte Aretusa, la rapì. Demetra disperata si mise alla ricerca della figlia, per nove giorni non mangiò e non bevve, facendo risuonare l’aria dei suoi lamenti. Apollo, il dio del sole, le rivelò la buia sede in cui si trovava la fanciulla, divenuta ormai regina dei morti. Allora Demetra discese negli inferi, ma le fu impedito l’accesso. Indignata, colpì la terra di una terribile maledizione che rese sterili le zolle, secche le verdure e fece cadere morti i buoi che aravano i solchi. Zeus, temendo che la razza umana potesse morire, intervenne mandando Ermes, il messaggero degli dei, da Ade per ottenere la restituzione della ragazza. Ade accettò a lasciare che Persefone per il futuro vivesse con la madre durante otto mesi l’anno, mentre per gli altri quattro mesi ritornasse negli Inferi. Demetra esultante di gioia, ridonò alla terra i suoi frutti e i fiori.
Afrodite era la dea dell’amore, secondo Omero, figlia di Zeus e della ninfa Dione; secondo Esiodo, invece, nata dalla spuma del mare fecondata dai genitali di Urano che Crono aveva tagliato e gettati in mare in seguito alla rivolta contro il padre. Il nome Afrodite significa appunto nata dalla spuma del mare. Il un mattino di primavera illuminato dai raggi del sole, una fanciulla meravigliosa emerse da un vortice azzurro delle acque del mare. Era ritta su una conchiglia iridata. Due Zefiri, sotto le sembianze di d giovanetti alati e incoronati di fiori, la spinsero col soffio verso la riva. Lì le Ore le andarono incontro, eseguendo una danza, e le detersero il corpo dalla salsedine; le pettinarono le lunghe chiome dorate, intrecciandole di perle. Poi, le fecero indossare una veste profumata e fecero brillare lungo collo di alabastro una splendida collana. Un carro tirato da candide colombe avanzò: Afrodite vi salì e attraversando il cielo, giunse nella dimora degli dei. Gli dei, anche i più rustici e sgarbati, come Ares ed Efesto, restarono ammaliati da quella meravigliosa creatura. Afrodite era la dea più bella dell’Olimpo e la cosa non piacque alle altre dee come Era ed Atena. Un giorno, mentre Apollo suonava la cetra e gli dei stavano ascoltando, la dea della Discordia si introdusse di nascosto nella sala e gettò una mela d’oro sulla quale c’era scritto: Alla più bella. Afrodite, Era e Atena arsero d’invidia per chi doveva raccogliere il frutto. Zeus intervenne e rimise il giudizio definitivo ad un arbitro. Il prescelto fu un pastore del monte Ida, di nome Paride, che ignorava di essere figlio di Priamo, re di Troia. Ermes portò le tre dee nel boschetto dove stava pascolando le sue greggi Paride. Il pastorello scese Afrodite, la quale aveva promesso al giovane, in cambio della sua scelta, di dargli la donna più bella del mondo, Elena. Capricciosa e volubile, Afrodite si divertiva a stringere e sciogliere gli amori. Le sue vittime furono infinite. Per colpa sua Paride s’innamorò di Elena, la rapì e scatenò la guerra di Troia. Però, anche Afrodite subì le frecce del suo figliolo malizioso, Eros. Adone fu il primo ch’ella amò. Questo giovane bellissimo suscitò nella dea una grande passione. Un giorno, mentre inseguiva un cinghiale in una foresta, egli venne ferito mortalmente dall’animale. Afrodite accorsa alle grida dell’amato, non poté fare altro che raccoglierne l’ultimo respiro e trasformarne il corpo in un anemone. Zeus, per consolarla, acconsentì che ogni anno Adone uscisse dal regno dei morti per quattro mesi, e li trascorresse con lei. Dopo Adone. Afrodite amò Anchise, principe troiano, e dalle loro nozze nacque Enea. In seguito, andò in sposa ad Efesto, dio del fuoco. Questo strano matrimonio avvenne per volontà di Zeus che volle ricompensare così Efesto per avergli forgiato i tremendi fulmini con cui annientò i Titani. Afrodite tradì il suo sposo con Ares, il dio della guerra. Afrodite era raffigurata talvolta seduta sul dorso di un cavallo marino o ritta su una conchiglia, oppure in piedi sopra un carro trainato da cigni o colombe.
Dio del sole, della musica e della divinazione, nacque da Zeus e da Latona. Apollo era gemello di Artemide, dea della caccia. Era lo odiò perché era figlio naturale del suo sposo e fece di tutto perché non nascesse. Perseguitò Latona, la costrinse a fuggire, tramutata in quaglia, fino all’isoletta di Delo, nel Mar Egeo. Là Apollo fu generato e bevve le prime gocce di nettare dalle mani di Temi, discesa apposta dall’Olimpo per portargli la divina bevanda. Ma Era evocò dalle tenebre, contro il fanciullo avvolto di luce e di bellezza, il serpente Pitone, mostro nato dal limo della terra. Apollo, che aveva quattro giorni, lo assalì in una valle ai piedi del monte Parnaso e lo uccise a frecciate. Con la pelle di quel serpente, egli coprì il tripode presso cui la Sibilla pronunciava gli oracoli nel santuario di Delfi. Una delle leggende più pittoresche e poetiche dell’antichità è quella di Apollo e Dafne. Apollo si era invaghito di una giovinetta di nome Dafne, pura e casta, che, come Artemide, amava la caccia e la solitudine. La fanciulla vedendosi sorgere all’improvviso il bell’adolescente, s’impaurì e fuggì via. Apollo la inseguì. Per valli e boschi si snodava la loro corsa, finché la giovinetta stava per essere raggiunta. Le sue lunghe chiome già gli sfioravano le mani tese di Apollo. Temendo di non riuscire a sfuggirgli, Dafne cadde al suolo e invocò aiuto alla Terra. Così, la Terra esaudì la sua richiesta: il suo corpo bianco come un giglio venne inghiottito da una guaina di grigia scorza, le gambe si radicarono nel terreno; dalle braccia imploranti sbocciarono rami ricchi di foglie che si intrecciavano ai capelli, divenuti verdi e duri. Quando Apollo la strinse al petto, sentì l’ultimo battito di un cuore sotto la scorza fredda di un alloro. Addolorato e commosso, Apollo prese l’alloro come sua pianta sacra e si incoronò della sua lucida fronda. Da allora la gloria delle lettere e delle armi veniva compensata con l’alloro. Apollo veniva rappresentato con l’aspetto di un giovane dalla regale bellezza. In qualità di dio del sole, era spesso in piedi sopra un carro tirato da quattro cavalli. Come dio della poesia, lo si raffigurava incoronato di alloro, con la testa alta e gli occhi rivolti al cielo, in atto di suonare la cetra.
Dio della guerra, Ares era figlio di Zeus ed Era. Per la sua smania di carneficina, Ares era poco accetto agli altri dei dell’Olimpo, ed anche al padre. Questo guerriero arrabbiato, suscitava le contese dei popoli e non si sentiva felice che nel tumulto sanguinoso dei combattimenti. Armato di spada o di lancia, si faceva strada con grandi colpi fra le legioni in lotta. Spesso lo si vedeva guidare un carro dalle ruote armate di falci. Al suo grido selvaggio accorrevano la dea della Discordia, con nella destra una spada e nella sinistra una fiaccola luminosa; il Terrore, dal volto livido e dalle fruste di serpi; le Keres, geni della strage che bevevano il sangue dei caduti. Atena non poteva sopportare questo soldato feroce, e spesso litigò con lui. Ma Ares riuscì a fare innamorare di lui la sposa di Efesto, la splendida e capricciosa Afrodite. Un giorno fu colto con essa dal dio del fuoco e fatto prigioniero in una rete dalla maglia invisibile. I figli di Ares ebbero difetti ancora peggiori dei quelli paterni. Tanto Licasto quanto Cicno erano briganti che sgozzavano i viaggiatori. Ares veniva rappresentato con le sembianze di un guerriero armato. Due uccelli gli furono sacri: il gallo bellicoso e l’avvoltoio divoratore di cadaveri.
Sorella di Apollo, il dio del Sole, nacque da Zeus e Latona. Artemide era contemporaneamente la dea della caccia e la personificazione divina della Luna. Chiese ed ottenne dal padre Zeus di poter vivere senza sposo, libera e senza passioni, nelle valli e nei boschi, rincorrendo il cervo o il cinghiale, insieme con lo stuolo delle sue Ninfe armate di arco e frecce. Durante la notte le sue scorribande da appassionata cacciatrice si identificavano con il lungo e lento cammino della luna attraverso il cielo. Regina delle foreste e dei monti, dispensatrice della rugiada e della pioggia benefica, era la protettrice dei viaggiatori nella tenebra notturna. Quando spuntava il mattino, Artemide deponeva l’arco e le frecce ed entrava nella dimora splendida di Apollo, dove dirigeva i cori e le danze delle Muse e delle Grazie, vestita di un ricco abito. La virtù di questa dea era rigida e scontrosa. Il cacciatore Atteone, per aver osato guardarla mentre, con le sue Ninfe, stava per discendere in una fontana per tergersi il corpo dalla polvere a seguito di una battuta di caccia, venne da lei trasformato in cervo. I cani si gettarono sull’infelice e lo dilaniarono. Una sola volta Artemide si innamorò. La dea amò con una tanta tenerezza il bel pastore Endimione che, per volere di Zeus, dormiva senza fine in una grotta nei monti della Cria, e non conosceva le gioie e i tormenti del vivere, né poteva essere vittima della morte. Afrodite, sotto il nome di Selene, penetrava ogni notte nella grotta e lo contemplava con estasi silenziosa. Ma Afrodite fu anche crudele con Niobe. Questa figlia di Tantalo aveva sette figli e sette figlie bellissime. Andava dicendo che neanche Latona aveva messo al mondo una prole così splendida. Latona l’udì, arse di collera ed affidò ai suoi figli la vendetta. I Niobidi morirono tutti, i maschi trafitti dalle frecce di Apollo, le femmine da quelle di Artemide. Niobe restò seduta tra i cadaveri insepolti, per nove giorni, impietrita dal dolore. Infine, Zeus ebbe pietà di lei e sul monte Sipilo la trasformò in una rupe. Afrodite veniva rappresentata con l’aspetto di una fanciulla bella ed energica, vestita di un leggero chitone e armata di un arco e di una faretra piena di frecce. Sul suo capo brillava talora una corona di stelle, ma più comunemente il carattere di dea della luna era dato dalla mezza luna che le ornava la fronte. Spesso l’accompagnava una cerva o una cane, animali a lei sacri. Altre volte la si vedeva ritta sul suo carro, in aspetto di cacciatrice, tirata da cerve che s’impennavano.
Dea della guerra e della sapienza, Atena nacque da Zeus e dalla saggezza infusa in lui, in modo insolito e bizzarro. Un giorno il re degli dei si sentì dolere acutamente la testa. Chiamò Efesto e lo pregò di colpirlo con un fendente sulla fronte. Efesto ubbidì e dalla larga fessura vide saltare fuori con un acuto grido una bella guerriera, Atena, con l’elmo d’oro e un giavellotto, che eseguì una danza bellicosa davanti agli dei. Atena, manifestò subito il suo carattere guerriero aiutando il padre nella lotta contro i Titani: prese anzi il suo nome di Pallade proprio da uno di essi, più muscoloso e feroce degli altri, che aveva atterrato. Disputò poi ad Era e ad Afrodite il premio della bellezza, aggiudicato da Paride ad Afrodite. Quando Cecrope fondò Atene, si trattò di dare il nome a quella città. Poseidone ed Atena si fecero avanti, accampando ciascuno il proprio diritto. Gli dei, radunati da Zeus, stabilirono di consacrare l’Attica e d’intitolarla a chi, fra i due, avesse fatto all’umanità il dono più utile. Poseidone battè col suo tridente la riva del mare, e si vide balzare fuori uno sbuffante cavallo. Atena colpì il suolo col ferro della lancia ed ecco sorgere un albero di ulivo. La sentenza degli dei fu a favore di Atena. Atena, come dea della guerra differisce molto dal suo sanguinario fratello Ares. Essa combatte non per l’amore della lotta e della strage, ma per il trionfo della giustizia. La sua audacia è riflessiva e il suo furore bellico non raggiunge mai la cieca barbarie. L’altra faccia della sua divinità è l’Intelligenza creatrice, il genio dell’arte e del pensiero. Atena inventò il forno del vasaio, costruì la nave degli Argonauti, insegnò ai mortali ad arare i campi, ad erigere le case ed i templi, a filare la lana e a ricamare stoffe dai colori splendenti. Questa divina patrona delle leggiadre opere femminili era gelosa delle proprie virtù. Quando sentì dire che la lidia Aracne si vantava di ricamare come nessuno al mondo ed era pronta anche a misurarsi con lei, Atena scese dall’Olimpo piena d’ira e sotto le sembianze di una vecchietta rugosa, si presentò nella casa della fanciulla, proponendole una gara, rivelandosi come Atena. Aracne accettò. L’opera della fanciulla era talmente bella che Atena sentendosi eguagliata, in un impeto d’ira strappò la tela in mille pezzi e trasformò l’orgogliosa competitrice in un ragno, costringendola a ricamare per l’eternità una tela iridescente. La dea era rappresentata con aspetto grave e nobili forme, in piedi, in assetto di guerra. Un peplo dalle ricche pieghe avvolgeva il suo corpo. Sul petto le discendeva l’egida, un mantello di pelle di capra frangiato d’oro, su cui era raffigurata la testa di medusa. L’elmo portava una sfinge e due grifoni. Nella mano destra sorreggeva la Nike, cioè la vittoria, mentre con la sinistra si appoggiava lo scudo ovale cesellato. Il suo animale sacro era la civetta.
Dio del vino, Dioniso era figlio di Zeus e di Semele. Egli divenne oggetto di un ricchissimo ciclo di favole e leggende sorte in tutte le regioni della Grecia, della Tracia e dell’Asia. Quando Era si accorse che Semele, figlio di Glauco, doveva metterlo al mondo, le consigliò perfidamente di chiedere a Zeus di apparirle nel suo aspetto divino e glorioso. Ben sapeva la gelosa moglie del re degli dei che la vista di Zeus l’avrebbe arsa viva. E così avvenne. Le fiamme di cui Zeus splendeva incenerirono la povera Semele. Ma l’Olimpio raccolse il bambino, nato prematuramente, e se lo cucì in una coscia. Venuta l’ora, lo rimise in luce e lo affidò ad Ermes, il quale lo portò dalle Ninfe della montagna di Nisa, che abitavano una grotta tappezzata di vite selvatica. Le Ninfe, le Ore e i Satiri dai piedi caprini si dedicarono all’educazione del riccioluto fanciullo. Tutto a Dioniso fu permesso: rincorrere i cerbiatti nei boschi, arrampicarsi sugli alberi. Divenne un grande cacciatore e accumulò miracolosamente le belve tenne accanto a se due tigri docili come gattini. Un giorno, raccolti alcuni grappoli della vite che coprivano la parete della grotta, provò a farne colare il succo in una coppa d’oro. Quando bevve il liquore vermiglio, sentì più che mai di essere un dio. Un grande dono per i mortali: l’umanità avrebbe avuto il suo nettare. Ninfe e Satiri assaggiarono la spumosa porpora e li assalì una divina ebbrezza. Dioniso decise di partire per rivelare agli uomini l’arte d’inebriarsi con il mosto fermentato. Ninfe e Satiri lo accompagnarono in corteo. Il gioioso corteo attraversò regioni immense. L’Egitto e l’India ricevettero il battesimo del vino. Era, che odiava Dioniso a morte, lo perseguitò con infiniti pericoli, lo colpì di follia, cercò di farlo incatenare nel sonno dai pirati: ma il dio spezzò i vincoli e trasformò la nave in vigna ed i rapitori in delfini. Le collere di Dioniso sono terribili; il vino, fonte di gioia e di poesia, era spesso causa di furore e di delitto. Di ritorno dall’Oriente, Dioniso sbarcò con la sua corte rumorosa sulle floride rive dell’isola di Nasso. Il lido risuonava di canti scomposti; dagli otri colava a fiumi la rossa bevanda. Intorno al dio la corte si abbandonava a danze frenetiche. All’improvviso, il vento leggero portò all’orecchio del dio l’eco di un lamento. Due satiri vennero correndo a riferirgli che, in un piccolo bosco c’era una donna bellissima come una dea, che singhiozzava accasciata sull’erba. Dioniso ordinò che fosse condotta al suo cospetto. La donna era Arianna, sposa di Teseo, che l’aveva abbandonata volontariamente sull’isola deserta, perseguitato dalla tempesta. Dioniso la contemplò, cercando di confortarla. Decise allora che sarebbe diventata la sua sposa. Le nozze vennero celebrate in un’immensa frenesia di danze e di cori. Un carro trainato da due pantere condusse i due sposi divini sulle vette dell’Olimpo. Il culto di Dioniso era diffuso ovunque nell’antichità. Si venerava in Dioniso non solo l’inventore del vino, ma anche l’ispiratore d’ogni entusiasmo e d’ogni ebbrezza. Le feste che si celebravano in suo onore ad Atene durante l’autunno, le Dionisiache, consistevano in cori e danze, in dialoghi e mascherate. Dioniso era venerato in origine sotto le sembianze di un albero avvolto d’edera. Più tardi lo si rappresentò come un bell’uomo virile e barbuto, coronato d’edera e di pampini. All’epoca di Pericle, il dio prese l’aspetto più effeminato, con capelli in cui risplendono gioielli femminili. Talvolta aveva sulle spalle una pelle di caprone o di leopardo. Il suo carro era tirato dalle linci e dalle tigri, circondato da Satiri e baccanti. La tazza e il tirso erano i suoi attributi; la vite e l’edera, il fico e la quercia i suoi alberi prediletti. Talvolta gli scultori o i pittori lo raffiguravano con accanto una gazza, simbolo della chiacchiera petulante degli ubbriaconi.
Dio del fuoco, era figlio di Zeus ed Era. Efesto era talmente spiacevole di aspetto che quando nacque la madre stessa prese ad odiarlo e finì con il lanciarlo giù dall’Olimpo. Il povero reietto cadde per un giorno intero, e, quando si fermò, si trovò azzoppato, sull’isola di Lemno che fremeva di fuochi nascosti. Là impiantò la sua fucina in un cratere e vi lavorò per nove anni, a battere e plasmare ferro, bronzo e i metalli preziosi. Nelle viscere fumose del vulcano Etna, aveva un’altra fucina dove, con l’aiuto dei Ciclopi, giganti con un occhio solo in mezzo alla fronte, batteva sull’incudine i fulmini per Zeus. I boati del vulcano, le sue piogge di sassi e lapilli, le lente colate di lava erano per gli uomini segnali dell’attività sotterranea di Efesto e dei suoi inservienti. Un giorno, stanco di affaticarsi sempre al buio, in una tormenta di scintille, Efesto cercò di risalire sull’Olimpo, da dove la madre lo aveva lanciato. Fabbricò un bel trono d’oro, tutto filigrane e ceselli e lo mandò in dono ad Era. Ma appena ci si sedette, la dea si sentì legata da invisibili fili e non valsero le fatiche di tutti gli Olimpi per staccarla dal trono. Zeus mandò Ermes fin nell’antro di Lemno a cercare l’autore di quel infido dono. Efesto accettò di liberare Era, a patto di poter ritornare, con tutti gli onori, nella reggia degli dei. Appena rientrato sull’Olimpo, dove vi impiantò una formidabile fucina. Tutti gli dei reclamavano che Efesto gli realizzasse qualche gioiello. Zeus ebbe da lui lo scettro e un trono d’oro; Apollo il carro scintillante; Demetra, dea delle messi, la lucida falce. Efesto cesellò coppe e vassoi, fabbricò seggi per gli dei, ornò di statue d’oro le sale immense dell’Olimpo. Il dio del fuoco, tanto brutto da destare le risate degli altri dei quando compariva nelle loro adunanze e nei loro convitti, ebbe la triste idea di sposare Afrodite, dea della bellezza. Non fu un matrimonio felice; la capricciosa dea infatti lo tradì con Ares, dio della guerra. Quando, un giorno, Efesto riuscì a imprigionarli insieme in una sottilissima rete facendoli vedere a tutti gli dei riuniti, invocando vendetta, non ottenne che risate. Efesto venne rappresentato sotto le sembianze di un fabbro muscoloso e villoso, avvolto di una leggera tunica, con in mano un martello e una tenaglia. Spesso si poneva accanto un leone, belva il cui ruggito evocava i sordi boati dei vulcani.
Ermes, figlio di Zeus e Maia, era la personificazione del vento, dio dell’eloquenza, il messaggero di Zeus e il protettore dei pastori, dei viaggiatori, dei mercanti e dei ladri. In qualità di dio del vento, Ermes doveva proteggere l’eloquenza degli avvocati e degli oratori, che spesso avevano l’inconsistenza del vento; i ladri che insinuandosi dappertutto e fuggono come il vento. Se Ermes era il dio dei ladri, nulla impediva che poteva esserlo anche lui. Infatti, il furto più gravoso di cui si rese colpevole, fu quello di giovenche. Nelle montagne della Pieride, Apollo pascolava cinquanta floride giovenche. Mentre il dio del Sole sonnecchiava nella fresca notte, Ermes gliele spinse in branco nella valle e le serrò tutte in una grotta del monte Cillenio. Essendogli venuta fame, non indugiò un attimo a scannare due vitellini e a cuocerli a fuoco vivo. Apollo si svegliò e con grande stupore vide l’armento era scomparso. La sua chiaroveggenza divina lo illuminò sulla sorte delle giovenche. A grandi passi corse verso il monte Cillenio, trovò la caverna e vi entrò, ribollendo di rabbia. Ma Ermes lo ammansò senza la minima pena. Nella notte si era costruito uno strumento musicale con sette corde tese sul lato concavo del guscio di una testuggine, traendone suoni ammalianti. Apollo ascoltò rapito. Il dio della musica davanti a quel prodigio dimenticò tutto. Ermes se la cavò restituendogli le giovenche e regalandogli la lira. Ad ogni cenno di Zeus, Ermes snello ed astuto si lanciava nell’aria, battendo le alucce che ornavano i suoi magici sandali e che gli servivano a dominare l’aria. In testa aveva un copricapo tondo, detto petaso. Nella mano sinistra teneva il caduceo, una bacchetta che gli fu donata da Apollo e intorno alla quale erano avvinghiate due serpi. Quello scettro alato era un simbolo di pace. Ermes trovò un giorno due serpi che lottavano sibilando. Con quella bacchetta le separò, ed eccole ancora su quella bacchetta allacciate. Ermes portava ordini e messaggi, adempiva incarichi di fiducia, ed era dotato di una memoria formidabile. Ad Ermes venivano eretti, nei bivi delle strade, pilastri con la sua testa ripetuta per quattro volte, le erme. Inoltre, Ermes essendo il protettore dei vivi, non li abbandonava dopo la morte, ma conduceva le anime giù nel regno degli inferi e li affidava ad Ade. Per questo gli si facevano sacrifici nel momento della morte e lo si rappresentava con petaso, calzari alati e caduceo, sulle tombe.