Ogni popolo, ogni città della Grecia antica aveva i suoi Eroi o Semidei, modelli di coraggio e di virtù, onorati e celebrati per aver salvato la loro terra da mostri, da tiranni o da popoli oppressori. Nati dall’unione di un dio con una donna, o da una dea con un mortale, gli Eroi compivano azioni che solo gli dei potevano svolgere, ma, allo stesso tempo, come uomini, soccombevano al dolore, all’amore e alla morte. Certamente, queste grandi figure incarnavano la memoria di uomini illustri, vissuti realmente, in un lontanissimo passato.
Achille era figlio di Peleo, re dei Mirmidoni, e di Teti, una Nereide. Consacrato come l’eroe per antonomasia, Achille, alla nascita, venne immerso dalla madre per ben tre volte nelle acque dello Stige, volendolo rendere immortale. Ma, poiché lo tenne per il tallone, questa fu l’unica parte del corpo vulnerabile dell’eroe. Teti, avendo saputo dall’oracolo che il figlio sarebbe stato ucciso nella guerra che si stava preparando contro Troia, mandò Achille alla corte di Licomede re di Sciro, travestito da donna. Qui, Achille si innamorò di Deidamia, una delle figlie del re. Dalla loro unione nacque un figlio, il terribile Pirro. Il tentativo di Teti di salvare il figlio dalla sua tragica fine non servì a nulla. Infatti, quando i Greci si riunirono per organizzare la guerra contro Troia, l’indovino Calcante li invitò a cercare Achille, l’unico che avrebbe potuto garantire la vittoria. Teti, allora, implorò il Fato, affinché la sorte del figlio venisse mutata. Il Fato le propose due scelte per Achille: o una lunga vita oscura, oppure una morte gloriosa. Teti, con il cuore spezzato, scelse quest’ultima. L’assedio di Troia durava da parecchi anni, quando scoppiò una contesa tra Achille ed il re Agamennone, che si concluse con il rapimento, da parte del re, di Briseide, la schiava prediletta di Achille. Quest’ultimo, adirato, giurò di abbandonare il campo di battaglia. Inutilmente, Agamennone, pentitosi troppo tardi, restituì all’eroe la schiava. Achille rifiutò persino di raccogliere la sfida che Ettore, il principe troiano, gli aveva lanciato. E, forse, non avrebbe più combattuto se il suo più grande ed amato amico, Patroclo, rivestite le armi di Achille, forgiate per mano dello stesso Efesto, non fosse caduto per mano di Ettore, che lo spogliò delle miracolose armi. Teti ottenne dal dio del fuoco delle nuove armi per il figlio, il quale si scontro con Ettore, uccidendolo e facendo scempio del cadavere. Poi, avuta pietà delle lacrime del re troiano Priamo, gli riconsegnò il corpo del figlio. Discorde è la leggenda sulla fine dell’eroe. Secondo una tradizione, Achille venne ucciso da Paride con una freccia scoccata sul tallone; secondo un’altra, Achille morì a causa sempre di una freccia ma lanciata sul tallone da Apollo. Aiace Telamonio ed Ulisse riuscirono a sottrarre il cadavere dell’eroe dalle mani dei Troiani e riportarlo, per i dovuti onori, all’accampamento greco.
Bellerofonte era l’eroe nazionale della città di Corinto. Fu costretto, a causa dell’uccisione accidentale di un uomo di nome Deliade, ad abbandonare il suo paese per riparare a Tirinto, presso la corte del re Preto. La regina Stenobea si innamorò di lui, che, però, si rifiutò di ricambiare tale sentimento, per non venir meno ai doveri di ospitalità. In questo modo suscitò nella regina un forte odio e disprezzo, tanto che lo denunciò al marito, accusando Bellerofonte di aver tentato di sedurla. Il re non volle ucciderlo, sempre per i motivi legati ai doveri di ospitalità, ma lo inviò alla corte di re Giobate, padre di Stenobea, lasciando al suocero la giusta pena da infliggere all’eroe per il torto subito. Giobate accolse Bellerofonte con molta cordialità per nove giorni; il decimo giorno gli ordinò di andare a combattere contro la Chimera, sicuro che contro il mostro avrebbe trovato una sicura morte. Bellerofonte ottenne in prestito da Atena Pegaso, il cavallo alato; sul dorso di Pegaso, riuscì a colpire dall’alto con le frecce Chimera ed ad ucciderla. In seguito, l’eroe dovette affrontare altre ardue imprese, a cui Giobate volle esporlo, per mettere a dura prova il suo valore, benché oramai fosse convinto della protezione degli dei, sicuri dell’innocenza di Bellerofonte. Visto che l’eroe era invincibile, Giobate si rabbonì e gli concesse la mano della figlia Filonoe. Bellerofonte decise, in seguito, di ritornare a Tirinto, dove riaccese la passione in Stenobea, dalla quale ebbe tre figli Isandro, Ippolco e Laodamia. L’unione tra Laodamia e Zeus generò l’eroe Sarpedone. Infine, Bellerofonte, pieno d’orgoglio, volle salire sull’Olimpo a cavallo di Pegaso. Zeus, però, gli mandò un tafano che punse il cavallo alato, che si impennò, facendolo precipitare giù fino alla terra, dove trovò la morte.
Eracle era figlio di Zeus ed Alcmena, regina di Tebe. La dea Era lo perseguitò ancor prima che nascesse. Infatti, ella fece in modo che il fratello gemello Euristeo, concepito da Alcmena con il marito Anfitrione, nascesse per primo rispetto ad Eracle, impedendo così che avesse tutti i privilegi che il Fato prediceva. In questo modo, Euristeo, re di Tirinto, in forza della primogenitura, impose al fratello minore le dodici fatiche, con la speranza della divina Era che Eracle ne uscisse sconfitto. Quando l’eroe nacque, la gelosa dea inviò nella culla del piccolo e forte Eracle due serpenti. Il bambino, svegliato dallo strisciare dei due rettili, li afferrò per la gola e li stritolò. Da questo momento Eracle diede prova della sua imponente forza fisica. Zeus pensò che il latte umano non fosse adatto al nutrimento della sua prole; così fece sì che il piccolo succhiasse un po’ di latte da Era, in modo da acquisire anche la forza divina e, di conseguenza, l’immortalità. Il re degli dei inviò Ermes a prendere Eracle e, mentre Era dormiva, lo attaccò al seno. Il fanciullo succhiò voracemente il latte dalla dea e quando finì, alcune gocce di latte caddero nell’universo creando la Via Lattea. Una volta cresciuto, Eracle ebbe numerosi e validi maestri: Anfitrione lo istruì nel guidare un carro; Eurito nel tirare con l’arco; Castore nell’usare le armi; Eumolpo nell’arte della musica; Chirone gli insegnò la buona morale e l’amore per la scienza. Quando la fama e la forza di Eracle si diffuse in tutto il mondo, il fratello Euristeo, temendo di venire spodestato, ordinò al forzuto eroe, in nome di Zeus, le famose dodici fatiche. Eracle obbedì al volere Del signore degli dei.
La prima fatica fu la lotta con il Leone di Nemea, un mostro nato da Tifone ed Echidna, il quale non poteva essere sconfitto dalle armi in quanto aveva la pelle impenetrabile. Eracle usò l’astuzia: lo fece rintanare nella sua grotta, costringendolo ad indietreggiare con il lancio di frecce e colpi di clava. Poi, lo soffocò con la forza delle sue possenti braccia. In seguito, lo scuoiò e con la sua pelle fece una veste ed un elmo (la leontè).
La seconda fatica consistette nell’uccisione dell’Idra di Lerna, mostro dalle sette teste, una delle quali immortale, mentre le altre ricrescevano una volta recise. Il suo corpo era per metà quello di una ninfa e per l’altra di un serpente. Eracle bruciò le sei teste prima che si riformassero ed, in seguito, schiacciò la testa immortale. Nel sangue fuoriuscito, intinse le punte delle sue frecce, che avrebbero così provocato ferite difficili da guarire.
La terza prova si svolse contro il Cinghiale d’Erimanto, animale che imperversava nell’Elide e in Arcadia. Il possente cinghiale venne cacciato da Eracle fin sul monte di Erimanto. Una volta catturato e afferrato per le zampe, venne condotto ancora vivo davanti ad Euristeo, che per poco non morì di paura.
La quarta prova riguardò la cattura della Cerva di Cerinèa, che possedeva i piedi di rame e le corna d’oro. Era l’animale sacro ad Artemide, che si aggirava per i sentieri del monte Cerinèa con una agilità tale che nessuno riusciva a raggiungerla. Eracle la cacciò per un anno intero, fino a quando non riuscì a catturarla dopo averla abbracciata.
La quinta fatica riguardò lo sterminio degli Uccelli di Stinfalo, animali con artigli, becco, ali e piume di bronzo, che vivevano in una folta foresta sulle rive del lago di Stinfalo, in Arcadia. Questi mostri costituivano una piaga, perché si erano moltiplicati in maniera straordinaria e divoravano tutti i raccolti ed i frutti dei campi dei paesi circostanti. Per stanarli dalla foresta, Eracle usò delle nacchere di bronzo, costruite da lui stesso. Con il rumore di questo strumento gli uccelli uscirono fuori terrorizzati ed in questo modo Eracle li sterminò con le frecce avvelenate.
La sesta prova si svolse in Elide, dove Augia, re degli Epèi, teneva delle stalle con tremila buoi, senza però mai pulirle. Tutta la regione circostante era ammorbata da un fetore pestilenziale proveniente dagli animali. Così Euristeo affidò ad Eracle il compito di pulirle. L’impresa sembrava impossibile, ma Eracle ci riuscì. Distrusse una parte del muro della stalla e la inondò con le acque del fiume Alfeo. Con la violenza della corrente del fiume, tutto il sudiciume delle stalle venne trascinato via, rendendole perfettamente pulite.
Per la settima prova Eracle non dovette uccidere, ma catturare solo un toro ferocissimo, che Poseidone aveva regalato all’isola di Creta, e portarlo vivo ad Euristeo. Eracle riuscì nel suo intento e, avvolto l’animale in una rete, lo condusse a Tirinto.
Nell’ottava fatica, Diomede, figlio di Ares e re di Tracia, aveva quattro giumente che si nutrivano esclusivamente di carne umana. Euristeo ordinò ad Eracle di porre fine a questa cruenta abitudine. Eracle, allora, prima uccise Diomede facendolo divorare dalle sue stesse cavalle, poi le legò con una fune e le condusse a galoppo dinanzi ad Euristeo
La nona prova Eracle dovette recuperare il Cinto di Ippolita, regina delle Amazzoni, per accontentare Admete, figlia di Euristeo, che lo desiderava. Così Eracle, accompagnato da alcuni soldati, fece guerra alle donne-guerriere che vivevano nella regione del Mar Nero. Uccisa la regina, poté toglierle il cinto per donarlo alla capricciosa Admete.
La decima fatica ebbe come scopo il rapimento dei buoi di Gerione, un mostruoso gigante figlio di Crisàore e di Callìroe. Gerione, re delle Baleari, aveva tre corpi e possedeva un ingente mandria di buoi rossi custodita da un altro gigante di nome Euritione e da un cane bicipite. Eracle, una volta giunto a quello che ora è lo stretto di Gibilterra, piantò su ciascuna delle due sponde una colonna (le famose colonne d’Ercole). Prima, però, di impadronirsi dei buoi, Eracle dovette uccidere Gerione ed i due custodi. Infine, con la mandria al seguito, attraversò il mare e, compiendo un lunghissimo tragitto, condusse i buoi da Euristeo.
L’undicesima prova vide Eracle alle prese con la conquista dei pomi aurei delle Esperidi, figlie della stella della sera. Questi pomi crescevano in un giardino meraviglioso, sito in una valle dell’Africa. Gli alberi si piegavano al peso di questi frutti d’oro. Il re Euristeo si invaghì di questi pomi ed Eracle, per riuscire ad entrarne in possesso, incaricò Atlante di coglierne qualcuno. In cambio, avrebbe sorretto al suo posto il peso del cielo. E così fecero. Atlante riempì di bellissimi frutti il cappello di Eracle, mentre il forzuto eroe sopportò il peso del cielo.
La dodicesima ed ultima fatica di Eracle consistette nel discendere, accompagnato da Ermes, nel regno degli Inferi e catturare, con il consenso di Ade, Cerbero, mostro a tre teste, bavose ed urlanti. Quando Euristeo vide Eracle ritornare con la bestia incatenata che cercava di mordere, il re, quasi sul punto di morire per il grosso spavento, supplicò l’eroe di riportarlo nel regno dei morti.
Da questo momento, Eracle divenne libero Le imprese dell’eroe proseguirono senza sosta, ora contro Briside, tiranno d’Egitto, ora contro Eurito che non voleva concedergli in moglie la figlia Iole, secondo un patto convenuto. L’eroe, così forte e temuto, si innamorò diverse volte; prima di Onfale, regine di Lidia, che lo tenne come uno schiavo e poi di Deianira, bellicosa figlia di Eneo, re di Etolia. Ma Deianira era promessa ad Acheloo, il dio del fiume che aveva il dono di trasformarsi in mille modi. Eracle fu preferito ad Acheloo tanto che ne nacque una lotta terminata con la sconfitta del dio. Quando le nozze tra Eracle e Deianira vennero celebrate, l’eroe condusse via la sua sposa. Giunti ad un largo fiume ed incerti su come attraversarlo, ad un certo sopraggiunse il centauro Nesso. Questi si propose di aiutarli trasportando sul suo dorso Deianira. Quest’ultima accettò ed Eracle li seguì a nuoto. Nesso però aveva un altro fine: raggiunto il punto dove la corrente del fiume era più forte, si lasciò trascinare e portò via la donna. Eracle, accortosi dell’inganno, colpì a morte il centauro con una freccia avvelenata. Raggiunta la riva, Nesso si accasciò e prima di esalare l’ultimo respiro, in una delirante sete di vendetta, raccomandò a Deianira di raccogliere alcune gocce del suo sangue e di conservarlo. In esse era conservato un magico potere; se in un futuro le fosse venuto a mancare l’amore del marito, ella avrebbe dovuto intingere una tunica con le sue preziose stille e, fattala indossare al consorte, questi gli avrebbe ridonato il suo amore. Tempo dopo, Eracle si innamorò di Iole, figlia di Eurito, e la rapì. Deciso di celebrare un sacrificio a Zeus, mandò il fidato amico Lica da Deianira, affinché gli desse una candida tunica. Il messaggero, però, non seppe tenere a freno la lingua e raccontò alla donna il vero scopo di Eracle, cioè quello di voler sposare Iole. Deianira, furiosa di gelosia e ricordandosi delle parole di Nesso, intrise la veste del sangue del centauro e la diede a Lica. Appena Eracle la indossò, venne divorato da un fuoco terribile. Urlando di dolore, cercò di strapparsi la veste di dosso. Ma con ogni brandello di tessuto veniva via anche la carne dell’eroe. Correndo come un folle, raggiunse la cima del monte Oeta e iniziò a sradicare pini e querce per realizzare una pira su cui volle stendersi per morire. I compagni cedettero alla sue preghiere, aiutandolo nel suo orrido intento. In un turbinio di fuoco e fumo, il corpo di Eracle si sciolse, salendo su nell’Olimpo su di un carro trainato da quattro cavalli bianchi. Zeus accolse il figlio nella gloria dell’Olimpo e gli diede in sposa Ebe, la dea della giovinezza. Eracle venne sempre rappresentato come un uomo eccezionalmente muscoloso, con in dosso la pelle del leone nemeo ed in mano una clava. Il mondo antico lo consacrò come simbolo di forza fisica, coraggio ed audacia.
Giasone era figlio di Esòne, re di Iolco, e di Alcimède. La sua nascita avvenne sotto i più tristi auspici. Il padre era stato spodestato dal fratello Pelia. A costui l’Oracolo aveva predetto che sarebbe stato a sua volta deposto da un erede di Esòne. Per tale motivo, quando Giasone nacque, il padre fece credere al prepotente fratello, che il figlio era nato morto. La madre Alcimède portò di nascosto il piccolo sul monte Pelione e lo affidò al centauro Chirone, che lo educò forte e generoso. Giunto all’età di vent’anni, Giasone si congedò dal maestro e su consiglio dell’Oracolo, si presentò dinnanzi all’usurpatore Pelia in veste di legittimo erede al trono. Lo zio, che non era molto amato dal popolo, accortosi che il nipote riscuoteva grande simpatia tra la gente, non osò respingere la sua pretesa; anzi, gli promise di investirlo dei suoi legittimi diritti a patto che portasse a termine un’impresa degna della sua forza: la riconquista del Vello d’oro. Giasone, non tenendo in alcuna considerazione i pericoli a cui stava andando incontro, fece costruire una nave a cui diede il nome Argo in onore del suo costruttore. In seguito, riunì intorno a se cinquantadue tra i più valorosi uomini del suo tempo, chiamati gli Argonauti. Giasone e gli Argonauti partirono alla volta di Ea, città della Colchide che custodiva il Vello d’oro. Giunti sull’isola di Lenno, si spinsero, poi, fino al paese dei Dolioni, che inizialmente li accolsero in maniera ospitale, ma in seguito li affrontarono da nemici. I Dolioni furono sconfitti e il loro re ucciso. Gli Argonauti, dopo aver attraversato la Bitinia, persero l’orientamento e chiesero aiuto a Finèo, l’indovino incontrato in Tracia. Questi promise di dar loro una mano a patto che lo liberassero dalle Arpie, immondi mostri che imperversavano quei luoghi. Due degli Argonauti, Calai e Zete, riuscirono ad ucciderle. Allora, Finèo, grato, indicò loro la rotta che con la nave avrebbero dovuto percorrere e come superare lo stretto delle isole Simplegadi, dove c’era un vortice che rendeva pericolosa la navigazione. Superata questa difficoltà, la nave giunse alla meta. Ma le prove da affrontare non erano ancora finite. Infatti, il re Eeta, che li aveva accolti calorosamente, appena seppe lo scopo della loro visita, impose a Giasone una nuova sfida, superata la quale, avrebbe ottenuto il Vello d’oro. L’eroe avrebbe dovuto aggiogare due tori dalle unghie di bronzo e sbuffanti fuoco dalle narici; arare con loro un pezzo di campo e seminarvi dei denti di drago. Infine egli avrebbe dovuto sterminare i guerrieri nati dalla terra. Giasone certamente non sarebbe riuscito a sostenere la prova se non fosse giunta Medea, la figlia del re. La fanciulla, innamoratasi dell’eroe, si offrì di aiutarlo con i suoi incantesimi, a patto di sposarla. L’eroe accettò e si cosparse il corpo di un unguento miracoloso preparato da lei, che lo rese invulnerabile; affrontò i due tori, li aggiogò e seminò i denti di drago. Quando dalla terra fuoriuscirono dei giganti armati, su consiglio di Medea, Giasone lanciò una grossa pietra in mezzo a loro, uccidendoli. Benché la prova fosse stata superata, il re Eeta non volle concedergli le erbe soporifere necessarie a fare addormentare il drago, che era posto a guardia del Vello. Giasone, sempre grazie all’intervento di Medea, riuscì ad impadronirsi del prezioso cimelio e a portarlo sulla nave, seguito dalla fanciulla. Eeta, accortosi che il Vello era stato trafugato, li inseguì con i suoi uomini. Medea, che aveva previsto tutto, portò con sé il fratellino Absirto e, dopo averlo ucciso e squartato, ne gettò in mare i pezzi sanguinolenti. Eeta, sconvolto, fermò la nave per recuperare il corpo martoriato del figlioletto, così i due fuggitivi riuscirono a prendere il largo. Il gesto atroce di Medea aveva, però, inorridito Giasone. La crudeltà della donna si ripeté nuovamente, quando, consegnato il Vello d’oro a Pelia, il re si rifiutò di cedere il trono all’eroe. Medea, allora, persuase le figlie del re a tagliarlo a pezzi e a cuocerlo con le erbe prodigiose in suo possesso in modo da farlo ringiovanire. Per dimostrare che diceva il vero, operò la metamorfosi davanti ai loro occhi, utilizzando un vecchio montone, il quale, dopo l’operazione si tramutò in un giovane agnello. Però, l’esperimento non ebbe lo stesso risultato con Pelia. Medea, allora, convinse Giasone a fuggire a Corinto, dove l’eroe si invaghì della bella Glauce, figlia del re. Liberatosi della crudele Medea, divenuta ai suoi occhi odiosa, sposò la giovane fanciulla. Medea, per vendicarsi del tradimento subito, inviò come dono di nozze a Glauce una veste incantata. Appena la sposa ebbe indossato l’abito, questo prese fuoco, carbonizzando la fanciulla. Medea, non ancora sazia di vendetta, uccise con le sue mani i due figlioletti che Glauce aveva avuto da Giasone. Dopo aver predetto all’eroe una misera fine, Medea balzò su un carro trainato da mostri alati e volò via. La morte raggiunse Giasone, duramente provato, mentre si trovava sdraiato all’ombra della sua nave Argo, rimasta in secco sulla spiaggia, pensando tristemente al tramonto della sua gloria.
Odisseo, figlio di Laerte e di Anticlèa, era marito di Penelope. Re di Itaca, Odisseo fu tra i pretendenti alla mano di Elena prima che costei scegliesse Menelao, senza che però l’eroe ne serbasse rancore. Anzi, si impegnò, con un solenne giuramento fatto al padre di Elena, di correre in suo aiuto in caso di necessità. Quando, a causa del ratto di Elena da parte di Paride, scoppiò la guerra di Troia, Odisseo non se la sentì di parteciparvi, nonostante l’impegno assunto. Il motivo del ripensamento era dovuto al fatto che l’oracolo gli aveva predetto che, se fosse partito, sarebbe ritornato in patria solo dopo venti anni. Per evitare di essere coinvolto, si finse pazzo. Agamennone, che stava riunendo un esercito per la spedizione contro Troia, non credette alla sua pazzia. Così incaricò Palamede, figlio di Nauplio e re di Eubea, di indagare. Così, Palamede prese in braccio Telemaco, il figlio di Odisseo, e lo depose nel solco di terra che il finto pazzo stava tracciando. Prontamente, Odisseo alzò il vomere dell’aratro per salvare il figlioletto. Palamede lo smascherò, costringendo il re di Itaca ad onorare la promessa fatta al padre di Elena. Nel corso della guerra di Troia, l’astuzia e la mancanza di scrupoli di Odisseo servì molto alla causa dei Greci. La tradizione attribuisce ad Odisseo delle azioni non sempre onorevoli. Si racconta che egli fece scendere dalla nave Filottete, abbandonandolo, solo e sofferente, sull’isola di Lenno, perché la ferita provocata dal morso di un aspide, emanava un fetore insopportabile. Dieci anni dopo, però, Odisseo tornò a riprenderlo per condurlo con se a Troia; tale gesto non fu legato ad un rimorso dell’eroe, ma solo perché Filottete possedeva la frecce infallibili di Eracle, senza le quali, a detta dell’oracolo, Troia non sarebbe mai stata espugnata. La capacità di persuasione di Odisseo era nota: egli riuscì a convincere Diomede a travestirsi con lui da mendicante, riuscendo a rubare il Palladio, simulacro ligneo che aveva il potere di proteggere la città. Inoltre, Odisseo fu colui che suggerì ad Epèo l’inganno del cavallo di legno che sancì la definitiva caduta di Troia. Finita la guerra, per Odisseo cominciarono i guai, la sua vera Odissea,
Perseo era il mitico eroe di Argo. La madre Danae lo aveva generato da Zeus. Acrisio, padre di Danae e re di Argo, temendo che si avverasse la predizione di un oracolo, che profetizzava la sua morte per mano di un nipote, fece rinchiudere Danae con il figlioletto all’interno di una cassa, gettata poi in mare. La cassa, dopo aver galleggiato per diverso tempo, si arenò sull’isola di Serifo. Il re dell’isola, Polidette, la fece aprire e con grande stupore, ne scoprì il contenuto. Perseo venne educato come un principe dal re, che nel frattempo si era innamorato di Danae. Vedendo, però, in Perseo un ostacolo all’unione con la madre, Polidette decise di allontanarlo dall’isola. Così gli diede l’incarico di uccidere Medusa, la più terribile delle tre Gorgoni, mostro con la chioma di serpenti e lo sguardo vitreo che aveva il potere di pietrificare chiunque la fissasse. Perseo, allora, si accinse ad intraprendere l’impresa, aiutato da Ermes e da Atena, i quali gli suggerirono dove procurarsi i tre oggetti indispensabili per sconfiggere la Gorgone: un elmo che lo rendeva invisibile, un sacco da viaggio e un paio di sandali alati. Tutto ciò era in possesso delle Graie, tre sorelle nate da Forco e da Cèto, calve sin dalla nascita e con la pelle grinzosa, le quali avevano un solo occhio ed un solo dente. Atena diede, inoltre, a Perseo uno specchio nel quale, senza alcun pericolo, egli poteva vedervi riflessa Medusa prima di tagliarle la testa con un falcetto donatogli da Ermes. L’eroe, giunto dalle Graie, strappò loro l’occhio costringendole, per riaverlo, a dargli gli oggetti in loro possesso e ad indicargli dove si trovava Medusa. Ottenuto tutto, Perseo raggiunse il luogo dove si trovava Medusa e la trovò addormentata. Tagliata con il falcetto la testa della Gorgone, la ripose all’interno del sacco. Le altre due Gorgoni accorsero furiose, ma Perseo, resosi invisibile con l’elmo magico, riuscì a fuggire, affidandosi anche all’aiuto dei calzari alati. Più tardi, consegnò ad Atena la testa di Medusa, che la dea mise sull’egida; anche se la testa della Gorgone ancora gli serviva. Infatti, sorvolando l’Etiopia, salvò la bella Andromeda, figlia del re Cefèo, da un’orribile morte. Su consiglio dell’oracolo, il re aveva legato la figlia ad uno scoglio affinché un mostro marino, inviato da Poseidone, la divorasse. Infatti, il dio del mare si era sentito oltraggiato da Cassiopea, moglie di Cefèo, perché rea di aver recato offesa alle Nereidi. La povera Andromeda stava per essere divorata dal mostro, quando Perseo, volando con i calzari, lo uccise. Come ricompensa, ebbe la fanciulla in sposa. Ma, Andromeda era stata già promessa in sposa a Finèo, fratello del re. Siccome costui non voleva rinunciare alla mano della ragazza, ne scaturì un combattimento. Perseo tirò fuori dal sacco la testa di Medusa e Finèo rimase pietrificato. Rimaneva a Perseo da aggiustare i conti con Polidette, il quale, in sua assenza, non aveva fatto altro che insidiare la madre Danae. Anche questa volta la testa di Medusa risolse il problema. Perseo cedette il regno al fratello di Polidette, Dictis, che era stato colui che aveva trovato la cassa con dentro lui e la madre rinchiusi. La generosità che caratterizzava Perseo, si manifestò nei confronti del nonno Acrisio; quest’ultimo era stato spodestato dal fratello Preto e Perseo, sempre con l’aiuto della testa di Medusa, restituì il trono al nonno. Infine, consegnò definitivamente la micidiale testa ad Atena, sua protettrice.
Prometeo era uno dei Titani, figlio di Giapeto e di Temi; simbolo dell’umana ragione e vittima del despotismo cieco ed autoritario. Egli fu colui che, per primo, forgiò l’uomo dall’argilla, gli diede un’anima e rubò il fuoco a Zeus per donarlo agli uomini, grazie all’aiuto di Atena. Zeus, indignato che un mortale si fosse impadronito con l’inganno del fuoco, ordinò ad Efesto di incatenare Prometeo sul monte Caucaso, dove un aquila gli avrebbe divorato il fegato per l’eternità. L’atroce supplizio durò, però, fino a quando Eracle non lo liberò, uccidendo l’aquila con una delle sue infallibili frecce. La liberazione di Prometeo non sarebbe stata consentita da Zeus se un immortale non avesse rinunciato al suo privilegio divino. A liberare Prometeo da questa triste sorte intervenne, infatti, il centauro Chirone: Prometeo ottenne l’immortalità di Chirone, mentre il centauro accettò di morire per sottrarsi alle terribili sofferenze che gli provocò una delle frecce di Eracle. In questo modo Prometeo ottenne il perdono di Zeus.
Teseo fu l’eroe per eccellenza dell’Attica. Figlio di Egeo, re di Atene, e di Etra, l’eroe nacque a Trezene. Un giorno la madre gli rivelò il nome del padre e lo invitò ad andare ad Atene, dove Egeo l’attendeva. Il viaggio che l’eroe intraprese, non fu privo di pericoli. Lungo la strada si imbatté in atroci briganti: Perifete, che attaccava i viandanti, sgozzandoli; Sini, che li legava e poi squartava e Scirone, che li annegava lanciandoli dall’alto di una rupe. Teseo fece subire a ciascuno di loro gli stessi supplizi che essi avevano inflitto. Giunto, infine, ad Atene, il coraggioso e affascinante eroe si presentò davanti al re sotto le sembianze di uno straniero. Medea, che era divenuta la sposa di Egeo, per mezzo dei suoi poteri di chiaroveggenza, lesse nell’animo del giovane e, piena di gelosia, istigò il marito a propinare al giovane una bevanda avvelenata. Ma, quando il re vide la spada di Teseo e il segno che vi era inciso, riconobbe subito il figlio. Medea, allora, venne cacciata e Teseo regnò ad Atene insieme al padre. In quel tempo ad Atene giunse Androgeo, figlio del re di Creta Minosse, per partecipare ai giochi in onore di Atena. La vittoria del giovane suscitò un forte odio da parte di Egeo, il quale lo incitò ad affrontare un toro che infestava la pianura di Maratona. Questa volta Androgeo ne uscì sconfitto e il corpo dilaniato dalla terribile bestia. Minosse, alla notizia della morte del figlio, armò una flotta e mise sotto assedio Atene. In seguito, pregò Zeus affinché sulla città piovessero i peggiori castighi e pestilenze. Gli Ateniesi consultarono l’oracolo, la cui risposta fu quella di arrendersi e concedere quanto il re cretese chiedeva per placare la sua vendetta. A Creta, all’interno di un dedalo di corridoi, sotterranei e grotte, chiamato Labirinto, viveva un orrendo mostro, il Minotauro, metà uomo e metà toro; questi si cibava esclusivamente di carne umana. Minosse impose ad Atene che, ogni anno e per i successivi nove anni, sette giovani e sette fanciulle ateniesi si immolassero per nutrire il Minotauro. Per i primi tre anni Atene dovette subire questo tremendo tributo. Ad un certo punto, Teseo decise di porre fine a questa intollerabile situazione e si aggiunse alle vittime che stavano partendo per Creta. In seguito, si presentò al re Minosse e lo informò della sua intenzione di uccidere il mostro. Arianna, la figlia del re, ascoltate le parole di Teseo e invaghitasi di lui, decise di aiutarlo nelle sua impresa. L’eroe ateniese, munito di una grossa mazza, entrò nel Labirinto insieme alle vittime prescelte. Giunto dinnanzi al Minotauro lo colpì con tutte le sue forze sulla cervice, uccidendolo. Uscire da quel dedalo di corridoi sarebbe stato impossibile se, a questo non avesse provveduto Arianna, la quale dipanò un lungo gomitolo di filo che servì all’eroe per trovare la via d’uscita. Teseo risalì sulla nave che doveva riportarlo ad Atene, insieme ai giovani risparmiati alla morte ed Arianna andò con lui. Durante il viaggio i due innamorati vennero separati: infatti, una tempesta gettò la nave contro l’isola di Nasso. L’eroe sbarcò insieme ad Arianna che chiedeva di riposare un po’. Al suo risveglio, però, la fanciulla non trovò più né la nave, né Teseo. Quest’ultimo, dimenticatosi della fanciulla, navigò verso Atene. Senza pensare alla promessa che aveva fatto ad Egeo prima di partire, cioè di issare una vela bianca in segno di esito positivo dell’impresa, Teseo entrò al porto con una vela nera. Il padre, credendo che il figlio fosse stato divorato dal Minotauro, si lanciò dalle rocce in mare per il dolore. Le imprese di Teseo non terminarono. Incoronato re di Atene, partì per tante altre battaglie. La sua morte avvenne per mano di Licomede, re di Sciro, il quale lo fece precipitare in mare, a tradimento, dall’alto di una scogliera.