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Miti

I Miti possiamo considerarli delle storie che raccontano episodi legati alle origini del mondo e dell’uomo. La loro funzione è quella di preservare concezioni sia religiose che culturali. Inoltre, hanno per protagonisti personaggi e situazioni del passato che, per il valore intrinseco che esprimono, possono essere di esempio anche per le generazioni moderne.

IL MITO DI MEDEA

Medea era la figlia del re della Colchide, Eeta, e di Idea. Quando Giasone giunse in quella regione alla ricerca del Vello d’oro, una pelle di montone con il potere di curare ogni ferita, Medea s’innamorò di lui. Il re, che teneva custodito il prezioso oggetto, promise a Giasone di darglielo a patto che superasse numerose e difficili prove. Accortosi, però, che Eeta non avrebbe mantenuto la parola data, il capo degli Argonauti rubò il Vello e fuggì portandolo con sé, insieme a Medea ed al fratellino di lei, Absirto. Il sovrano, scoperta la fuga, li inseguì con la sua nave. Medea, essendo una maga, aveva previsto tutto; uccise il fratello e ne dilaniò il corpo per gettarlo in mare. Il padre, accortosi del crudele gesto compiuto dalla figlia, ordinò di fermare la nave per poter raccogliere i poveri resti del figlioletto. I due fuggiaschi riuscirono in questo modo ad allontanarsi. Nel frattempo, a Iolco, il re Pelia, zio di Giasone, aveva saputo che il nipote stava ritornando in patria. Infatti, Pelia aveva promesso a Giasone di restituirgli il trono usurpato al fratello Esone, solo se gli avesse portasse il Vello d’oro. Medea, sicura che il re non avrebbe mantenuto la promessa, decise di aiutare Giasone. Sotto le sembianze di una vecchia, si presentò alle figlie del re e le convinse a somministrargli una pozione per farlo ringiovanire; prima, però, lo avrebbero dovuto tagliare a pezzi. Per dimostrare la veridicità di ciò che diceva, Medea prese un montone e, una volta tagliato in tante parti, lo immerse in un pentolone aggiungendovi il liquido magico. All’improvviso, il montone si trasformò in un tenero agnellino. Allora, le figlie del re, convinte del prodigio, fecero a pezzi il padre. Ben presto si accorsero che Medea le aveva ingannate e Pelia morì tra atroci sofferenze. Giasone divenne, così, il nuovo re di Iolco. Trascorsi alcuni anni, Creonte, re di Corinto, decise di dare in sposa a Giasone la figlia Glauce, una bellissima fanciulla, di cui l’eroe si innamorò perdutamente. Medea, per vendicarsi del tradimento subito, regalò a Glauce, come dono di nozze, una preziosa tunica intrisa di un potente veleno. Una volta che Glauce l’ebbe indossata, il suo corpo cominciò a bruciare; il padre Creonte nel tentativo di salvarla, morì anch’egli. Giasone, certo che la responsabile di tutto ciò doveva essere Medea, andò a cercarla. Ma costei, per infliggere più dolore all’eroe, decise di sacrificare anche i due figlioletti che aveva avuto dall’eroe. Infine, su un carro trainato da mostri alati, Medea volò via, maledicendo il suo amato Giasone.

IL CAVALLO DI TROIA

La guerra tra Achei e Troiani infuriava ormai da parecchi anni e nessuno dei due contendenti riusciva a prevalere sull’altro. Nell’accampamento acheo aleggiava un grande sconforto. All’improvviso, la tragica notizia della morte di Achille, trafitto da una freccia scoccata da Paride proprio nel tallone, unico punto in cui l’eroe era vulnerabile, sconvolse tutto l’esercito. Il corpo esanime di Achille venne portato all’interno di una tenda achea; i soldati, però, cercarono di impossessarsi delle sue armi, che si dicevano forgiate dallo stesso dio Efesto. In quel momento Aiace ed Ulisse ordinarono loro di farsi indietro; quelle erano armi degne solo di un valoroso condottiero. Scoppiò una disputa anche tra i due eroi, perché entrambi si ritenevano validi eredi di Achille. Così, il re Agamennone, coinvolto in questa diatriba, decise di andare nel recinto in cui erano tenuti prigionieri i soldati troiani e chiese chi secondo loro, tra Aiace ed Ulisse, era stato più pericoloso per la causa di Troia. I Troiani non ebbero dubbi: Ulisse. Agamennone, allora, ordinò che le armi di Achille fossero consegnate al re di Itaca. A questo punto, Aiace folle di rabbia, si allontanò dall’accampamento e, dopo aver fatto strage con la sua spada di tutto ciò che gli si presentava davanti, rivolse l’arma contro se stesso, e si uccise. Dopo qualche giorno, gli Achei riuniti in consiglio, manifestarono il loro scoraggiamento per la situazione di stallo in cui si trovavano. Erano trascorsi dieci anni dall’inizio della guerra e nulla sino ad allora era cambiato. A quel punto, Ulisse intervenne, esponendo il suo piano: se con le sole armi non erano riusciti a prendere la città di Troia, potevano riuscirci con l’astuzia. L’eroe acheo mandò a chiamare Epeo, un soldato non tanto coraggioso in battaglia, ma abile come falegname. Gli ordinò di costruire un enorme cavallo di legno, capace di contenere all’interno del suo ventre un piccolo gruppo di soldati, compreso lo stesso Ulisse. In poco tempo, venne realizzato un cavallo talmente grande da sovrastare le stesse mura di Troia. Venne deciso che, durante la notte, tutta la flotta achea salpasse alla volta dell’isola di Tenedo, poco distante da Troia, in modo da far credere ai Troiani che i nemici avessero abbandonato il campo di battaglia. Il mattino seguente, questi, si accorsero che gli Achei avevano lasciato l’accampamento e al loro posto si ergeva un enorme cavallo di legno. Sul fianco del cavallo c’era una dedica, nella quale si diceva che quello era un dono degli Achei, offerto alla dea Atena, affinché li proteggesse durante il loro viaggio di ritorno in patria. Fra i Troiani c’erano coloro che volevano portare il cavallo dentro le mura della città, mentre altri chiedevano che venisse distrutto per timore della dea, da sempre ostile a Troia. Nel frattempo, all’interno del ventre dell’animale, Ulisse e i suoi compagni ascoltavano tutto: l’eroe acheo ordinò di mantenere il massimo silenzio. All’improvviso Cassandra, profetessa e figlia del re Priamo, ebbe una terribile previsione: dal cavallo sarebbero usciti i nemici che avrebbero ucciso tutti i Troiani tingendo con il sangue le acque del fiume Scamandro. Nessuno, però, credette alla sua profezia, compreso il padre. Ad un certo punto, si fece avanti Laocoonte, sacerdote di Apollo, il quale pregò i Troiani di ascoltare le parole di Cassandra: Quel dono era sicuramente un inganno ordito da Ulisse, il più astuto degli Achei e bisognava distruggerlo al più presto. All’improvviso dal mare emersero dei mostruosi serpenti, che per ordine di Atena, si avventarono su Laocoonte ed i suoi due figli, stritolandoli. I Troiani videro in questo orribile gesto, il volere di Atena di non distruggere il cavallo. Così, si decise di portarlo all’interno delle mura di Troia. Quella stessa notte tutti i Troiani festeggiarono con vino e canti la fine della guerra e la loro vittoria. Quando calò finalmente il silenzio, Ulisse ed i suoi uomini uscirono dal ventre del cavallo. Aprirono le porte della città per far entrare Agamennone ed il suo esercito: cosi ebbe inizio la strage. Troia venne distrutta; tutto ciò decretò la fine della guerra di Troia.
IL VASO DI PANDORA
Il divino Zeus, adirato con il titano Prometeo per avergli rubato il fuoco, ordinò ad Efesto di plasmare con l’argilla una donna, Pandora. Tutti gli dei dell’Olimpo decisero darle in dono una virtù: chi la bellezza, chi la grazia, chi l’abilità, chi il fascino dell’eloquenza e della persuasione, ecc. Solo Ermes infuse nel suo animo la menzogna, la furbizia e la curiosità. Infine, Zeus le fece il dono di un vaso, ermeticamente chiuso, contenente tutti i mali del mondo. Egli impose alla donna di non aprirlo per nessun motivo. Poi, chiamato Ermes gli ordinò di consegnare Pandora a Prometeo. Quest’ultimo, conoscendo bene l’animo di Zeus, rifiutò il dono, sospettando un inganno da parte del re degli dei. Il fratello di Prometeo, Epimeteo, invece, si innamorò della fanciulla e, benché Prometeo cercasse di dissuaderlo, volle sposarla lo stesso. Pandora, da allora, si struggeva dalla curiosità di aprire il vaso, ma il marito ogni volta la dissuadeva dal farlo. Un giorno che Epimeteo si trovava lontano da casa, Pandora decise di approfittarne, per scoprire cosa contenesse il prezioso vaso. Appena l’ebbe scoperchiato, tutti i mali, che il mondo fino ad allora non aveva conosciuto, fuoriuscirono: la morte, la delusione, la miseria, la violenza, l’invidia…Pandora, terrorizzata, riuscì a richiudere il vaso intrappolandovi la speranza. Da quel giorno, l’umanità visse nella desolazione e nella miseria più assoluta, fino a quando Pandora non aprì il vaso nuovamente, facendone uscire la speranza e così il mondo ricominciò a vivere di nuovo.

IL POMO DELLA DISCORDIA

Durante le nozze di Peleo e Teti, Zeus invitò tutti gli dei dell’Olimpo, tranne Eris, la dea della discordia. Questa, adirata per l’offesa subita, volle vendicarsi. Si presentò lo stesso al banchetto e lanciò sulla tavola riccamente imbandita un pomo d’oro con incisa una frase, “alla più bella”. Era, Afrodite ed Atena iniziarono a litigare su chi delle tre doveva prendersi il pomo, ritenendosi ciascuna più bella delle altre. In questo modo, le tre dee caddero nella trappola di Eris, organizzatrice di conflitti e guerre. A questo punto, intervenne Zeus, il quale, per cercare di sedare la disputa, ordinò ad Ermes di condurre le tre contendenti sul monte Ida, presso il pastore troiano Paride, un uomo bellissimo e leale, che avrebbe assunto il ruolo di giudice. Giunte al cospetto di Paride, le tre dee cercarono di corromperlo, promettendogli svariate ricchezze se egli avesse scelto o l’una o l’altra. Era gli promise il dominio su tutta l’Asia; Atena la saggezza, la fama e la gloria in battaglia; infine, Afrodite l’amore della donna più bella del mondo, Elena. La scelta di Paride cadde su Afrodite, la quale ottenne il pomo della discordia. La bellissima dea aiutò Paride a rapire Elena, sposa di Menelao, re di Sparta. Tutto ciò scatenò la famosa guerra di Troia. La conseguenza di questa scelta fece nascere in Era ed Atena un odio sconfinato nei confronti di Troia e nei troiani, che portò alla distruzione della città da parte degli achei.

IL MITO DI FILOMELA E PROCNE

Procne, figlia del re di Atene Pandione, sposò Tereo re di Tracia, dal quale ebbe un figlio di nome Iti. Un giorno, la donna fu presa dalla nostalgia nei confronti della sorella Filomela, alla quale era molto legata e che non vedeva da cinque anni. Allora, chiese al marito di andare a prenderla così da poterla riabbracciare. Tereo acconsentì e partì alla volta di Atene, dove la fanciulla viveva nella reggia del padre. Quando Tereo vide per la prima volta Filomela, si accorse che era una fanciulla di rara bellezza e si infiammò di passione per lei. Ottenuto il permesso del re, affinché la figlia affrontasse il viaggio in sua compagnia, Tereo condusse Filomela sulla sua nave e partirono alla volta della Tracia. Una volta approdato sulla sua terra, Tereo e la fanciulla si misero in cammino. Raggiunto un capanno isolato tra i boschi, il re di Tracia fece credere alla ragazza che all’interno l’attendeva Procne. Ma una volta entrati, Tereo le usò violenza. Inoltre, temendo che Filomela raccontasse alla sorella del crudele e terribile gesto da lui compiuto, le tagliò la lingua e la rinchiuse all’interno del capanno. Pose una guardia armata dinanzi all’ingresso e una serva a provvedere alle sue necessità. Una volta ritornato dalla moglie Procne, Tereo le disse afflitto che la sorella era sfortunatamente morta durante il viaggio. Addolorata per la notizia, Procne indossò il lutto e fece erigere un sepolcro dove poter piangere l’amata sorella. Trascorse un anno e Filomela, benché muta e prigioniera, decise di ricamare su una tela la sua triste sorte, descrivendo i dettagli della violenza subita da parte del cognato. Poi, con la scusa di voler inviare un dono alla regina di Tracia, chiese alla serva di consegnarlo. L’ignara serva obbedì e portò il regalo a Procne. Quando quest’ultima vide il ricamo sulla tela, capì tutto. Decise, però, di frenare la rabbia e l’odio nei confronti del marito. Approfittando di una festa notturna in favore di Dioniso, Procne uscì di nascosto e andò a cercare Filomela nel bosco. Trovata la capanna, sfondò la porta e trovò la cara sorella. Procne dopo aver pianto di gioia e abbracciato Filomela, la condusse con sé al palazzo, dopo, però, averla camuffata. In seguito, le due sorelle pensarono ad un modo per punire Tereo. In quel momento comparve Iti e a Procne fu tutto chiaro. La vendetta più grande da infliggere a Tereo era privarlo del figlioletto. Nell’istante in cui il bambino porse le braccia verso la madre, Procne lo trafisse con un pugnale, uccidendolo. L’amore nei confronti della sorella e l’odio verso il marito furono più forti ed intensi, dell’affetto del figlio. Poi, le due sorelle squartarono il corpo del fanciullo, lo cucinarono in molti modi diversi ed infine Procne lo offrì al marito. Quando Tereo finì il lauto pasto, chiese alla moglie dove fosse il bambino. Procne gli rispose che l’aveva dentro di sé. Proprio in quell’istante entrò Filomela con un vassoio in mano, recante la testa del fanciullo. Dopo un attimo di smarrimento, Tereo cominciò ad urlare di dolore e rabbia contemporaneamente. Sguainò la spada e si avventò contro le due sorelle. Per volere degli dei, le due donne si tramutarono una in usignolo e l’altra in rondine, e volarono via. Tereo venne punito e trasformato in upupa. Secondo la tradizione greca, l’usignolo era Procne, che con il suo triste canto piangeva la morte del figlio; mentre la rondine era Filomela, la cui mancanza della lingua le permetteva un suono sgradevole.



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